
Lo so, è un racconto surreale e ironico, con un’ambientazione grottesca e dissacrante. Ma mi piace giocare con le parole e i personaggi. Per come la vedo io, alla fine, le storie che mi vengono fuori sono – come direbbero i Jalisse – fiumi di parole che scorrono nell’abisso della mia mente.
Stavo leccando il pavimento. E mi piaceva terribilmente.
Il mio padrone, un pitbull con le zampe posteriori incollate alla mia vecchia sedia, mi aveva lanciato generosamente la buccia della mela che stava mangiando. Le mie bave, filanti e lunghe, sfioravano il parquet, che all’epoca avevo pagato cinquanta euro al metro quadro. L’idea che potesse rovinarsi non mi aveva minimamente preoccupato. Perché in quel momento pensavo solo a una cosa: la buccia della mela.
Da quando gattonavo, le mie ginocchia erano ormai due sassi, capaci di sopportare qualsiasi tipo di pavimentazione. A dire il vero, dovevo ancora abituarmi all’asfalto, ma il dolore passava in secondo piano quando sapevo che il mio padrone mi avrebbe portato a pisciare. Alle parole “andiamo”, i miei pensieri, solitamente molto austeri, passavano immediatamente da “cibo” a “pipì”. Se prima della tragedia ero un tipo piuttosto pudico, dopo il fattaccio riuscivo a fare i miei bisogni all’aria aperta senza timore di essere guardato. Ero felice quando passeggiavo, dopo il fattaccio. Ero felice anche quando mangiavo, dopo il fattaccio.
Un’altra cosa di cui mi vergogno un po’ – ma che purtroppo rappresenta la realtà del fattaccio – era la mia ossessione per le pisciate delle altre persone.
Una cosa che, invece, non è cambiata dopo il fattaccio è la mia attrazione verso il fondoschiena delle donne. Quando il mio padrone mi portava a pisciare, speravo sempre di vederne qualcuna e annusarla ovunque.
“Dai, fai la cacca che devo andare a lavoro” mi diceva Milo, il mio padrone. Lo avevo chiamato come il cane di Jim Carrey in The Mask. Quel cane sembrava umano, era intelligente come un umano. E ora lo era anche il mio Milo.
Se prima del fattaccio mi svegliavo sempre all’ora beata, ora, alle sette, svegliavo Milo a suon di leccate. Lui si rigirava nel letto, mi insultava un po’ e poi si rimetteva a dormire.
Una delle cose positive del fattaccio erano i miei pensieri. Se prima ne formulavo cento al minuto, ora per un minuto pensavo sempre alla stessa cosa: pappa, la parola che mi eccitava di più. Anche il suono della parola era tutto fuorché cacofonico. Lo adoravo.
La cosa che invece odiavo profondamente era la bastardaggine di Milo. Il cane si divertiva a far oscillare davanti ai miei occhi un pezzo di carne, per l’esattezza mezzo chilo di bistecca abbrustolita, che emanava un profumino capace di farmi produrre un litro di bava.
“Lo vuoi, Nicholas? Vuoi questo succulento pezzo di carne?” Quel bastardo del mio padrone avvicinava sempre di più la pappa alla mia faccia, così che potessi sentirne ancora di più quell’odore che mi mandava ai matti.
“Dai, mangialo!” continuava Milo, con quel suo muso da culo. Potevo giurare che stesse ridendo. Quando faceva così, allargava gli angoli della bocca in un sorriso sadico. Se non fosse stato per i suoi canini tirannici, avrei avuto il coraggio di saltargli alla gola, strappargli dalle zampe la bistecca e mangiarmela alla faccia sua. E invece, il mio istinto mi portava ad assumere una posizione seduta e un’espressione da cane bastonato. I miei occhi supplichevoli non sempre provocavano una reazione generosa in Milo, anzi. La maggior parte delle volte si ficcava la pappa in bocca, masticando con gusto e provocazione.
“Vado a lavoro, Nicholas, fai il bravo” mi diceva quando doveva uscire.
Prima del fattaccio, amavo stare da solo. Ora, invece, la cosa mi faceva innervosire e, in questo modo, potevo vendicarmi delle carognate di Milo. Quando si dimenticava la busta del pane sul tavolo, il bidoncino dell’umido aperto o le sue scartoffie sulla scrivania, io mi divertivo un mondo. Certo, quando Milo rientrava a casa me ne pentivo subito. Era lui che me ne faceva pentire, a suon di giornali arrotolati e sbattuti sul mio di dietro e con l’astinenza per un giorno dalla pappa. Era terribile. Eppure, c’era qualcosa di strano in tutto ciò.
Nonostante la mattina preferisse dormire anziché soddisfare i bisogni della mia vescica, malgrado mi desse da mangiare delle crocchette vomitevoli, nonostante le beffe, io non smettevo di volergli bene.
Io, per Milo, avrei fatto di tutto, sempre e in ogni caso. Gli avrei leccato quel muso fino alla nausea.