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IL PALLISTA 2

IL PALLISTA 2

Amaranta Rossini. Una dea. Una donna con una terza di seno perfetto, venuta da me per chiedermi di rifarlo. Non potevo accettare, e non avrei accettato, nemmeno per tutti i soldi del mondo. 

Necessitavo di un consiglio e dato che tutti i miei amici mi avevano mandato a cagare dopo che li avevo perculati tutta la vita con un sacco di palle, mi restava una sola persona: mio nonno. 

“Ci vediamo da Monica alle dodici, puntuale” aveva detto nonno Augusto, marcando l’accento sulla prima U, come un vero napoletano. 

Ero arrivato in anticipo di due minuti, risparmiandomi la ramanzina del vecchio. 

“Due spaghetti con le cozze, Monica” aveva ordinato mio nonno alla cameriera cinese che, per lui e solo per lui, si chiamava Monica. 

“Sì, Jelly, subito” aveva risposto lei, convinta che si chiamasse così. 
“J-E-R-R-Y, Monica, con la erre, la erre, santo Dio! Song’ quindici anne ca vengo ccà e ancora me chiame comme na gelatina.” 
“Scusi, Jelly.” 

La stronzaggine di mio nonno mi faceva venire voglia di sotterrarmi ogni volta che eravamo in un luogo pubblico. Poi pensavo a quanto avessi assimilato la sua indole crescendo con lui, e questo mi faceva venire voglia di scavarmi direttamente una fossa.


“Ah, Monica, ricordati il cucchiaio per gli spaghetti.” 
“Sì, Jelly.” 

Avevo notato che, prima di entrare in cucina, aveva alzato gli occhi al cielo. La signora aveva stampato sulle labbra un vaffanculo pronto a esplodere, ma tutte le volte che andavamo a mangiare da lei lo mandava giù come una vera professionista. 

“Allora, Tommaso, che mi racconti? Guadagni soldi?” 
“A palate, nonno. Tu come stai?” 
“Eh, aspetto di morire.” 
“A parte questo, hai novità?” 
“Eh, sai, sono felice che oggi è il dodici di luglio.” 
“Come mai?” 
“Sessantadue anni fa mi sposavo con tua nonna.” 
 
“Ah, bene. E dove siete andati in viaggio di nozze?” — iniziavo a preparare il terreno per la questione Amaranta. 
“A Treppalle!” aveva detto lui, aggiungendo generosamente una ventina di P. 

Trepalle è un paesino in provincia di Sondrio che, senza le ripetute battute di mio nonno, non avrei mai conosciuto. 
“Dai, Augusto, sii serio.” 
“Ma Tommaso, dove minchia potevamo andare? Non avevamo gli occhi per piangere. Eravamo due pezzenti. Certo che ne spari di vongole, Tommà!” 

Monica, nel frattempo, ci aveva portato gli spaghetti con un profumatissimo sugo di cozze e tutto il locale si era girato per sentire le perle appena uscite dalla bocca di mio nonno. 

“Ah, che meraviglia, Monica. Sulo tu fai sti prelibbâtezze.” Le labbra sottili della signora si erano inarcate in maniera innaturale, facendo assottigliare ancora di più gli occhi a mandorla. 

“Buona appetita, Jelly.” 
Mio nonno aveva arrotolato la prima forchettata servendosi del cucchiaio. 
“Che squisitezza, Tommà.”
Erano davvero una squisitezza. 
“E che mi dici del tuo amico Ciccio?” 
Ciccio era un amico del militare. Amico più o meno. “Chill’ è proprio nu mariuolo!” diceva sempre.

“Quel trippaiolo di Ciccio?” aveva chiesto mio nonno. “Sarà caduto dentro una vasca di pisciazza, mi auguro.” 

Avevo versato del vino a mio nonno, sperando di fargli dire altre cazzate. 
“Nonno, ho incontrato una donna.” avevo confessato improvvisamente. 
Mio nonno aveva continuato a bere il vino, poi aveva posato il bicchiere sul tavolo, si era pulito la bocca col dorso della mano e aveva detto una sola parola: “Uànema” 

“Nonno è la fine del mondo, ma c’è un problema. È una cliente. Vuole che le rifaccia il seno” 
“E addò sta ‘o problema? Tiene doje mozzarelline ‘ncoppa ‘e tette?” 

A mio nonno il napoletano usciva in maniera così naturale quando doveva spronarmi a fare qualcosa. Questa volta, però, non sapevo cosa fare. 
“Ma nonno, ha due tette stupende e non voglio cambiargliele. Che faccio?” 
Nonno Augusto aveva sollevato le sopracciglia pensando alla soluzione. 
“Le dici una palla” 
“Eh, grazie. Quale?” 
“Che stai cambiando lavoro, poi ci esci e la convinci che va bene così. Prendi tempo a nonno. Con le donne si fa così!” aveva detto il Casanova dei quartieri spagnoli. 
“Ah, nonno. Stai perdendo colpi. Le palle che ti inventi non sono più quelle di una volta” 

Finito il pranzo, ci eravamo diretti verso la cassa, dal figlio di Monica. 
 
“Peppe, quanta t’aggia dà?” 
Il ragazzo aveva alzato un sopracciglio.
“Ventitle e cinquanta?” 
“Dammi un goccio di Montenegro, Peppe” 

Dopo avermi accompagnato alla macchina mio nonno aveva provato invano a darmi l’ennesimo consiglio di vita. E io per l’ennesima volta gli avevo mostrato la mia riconoscenza.
 
“Tommasò, ricuordate: ‘e palle adda’ cuntà. Cchiù palle racconti, cchiù campi.”