Dentro la scatola

Sentivo. Sentivo ogni cosa. Dai palazzi abitati, dalle auto che sfrecciavano notte e giorno, dai marciapiedi. Io sentivo tutto. E quel sentire aveva devastato il mio cuore, già martoriato da un vissuto poco piacevole. Ero abituata alle emozioni negative, ma viverle dal punto di vista degli altri era stato per me il colpo di grazia, l’ago della bilancia che mi aveva condannato agli inferi. Ero un’empatica da quasi due anni. E per tutto quel tempo, avevo scelto di vivere chiusa nel mio appartamento. Mi ero presa un’aspettativa infinita dal mio lavoro di assistente sociale. La mattina mi svegliavano l’ansia e l’agitazione dei miei vicini. Il lunedì mattina era il giorno in cui pativo maggiormente la mia empatia. Il livello di preoccupazione e nervosismo vissuto dalle persone era incontrollabile, ingestito. La gente era succube della propria emotività ed io ero succube della loro. Erano proprio i battiti accelerati dei loro cuori che mi battevano contro, fino a svegliarmi. Un giorno avevo temuto di vivere non solo le emozioni degli altri, ma anche le loro reazioni fisiche derivanti da quelle stesse emozioni. “Miseria ladra, ma come ho fatto a dimenticarmi di mettere la sveglia?” aveva urlato la ragazza di due palazzi più avanti. La mia empatia si estendeva nel raggio di mezzo kilometro e Dio solo sa se non mi sembrava di sentire le urla, i pianti e la sofferenza del mondo intero. Ero esausta.
Sentire gli altri equivaleva ad un risucchio di energie incalcolabile. La sera mi sentivo svuotata.
“Sì, bravo, continua” aveva sussurrato una donna in auto con quello che presumibilmente mi era sembrato il suo amante piuttosto che suo marito.
“Adoro le sveltine di prima mattina” le aveva mormorato lui nell’orecchio.
“Grazie per la carica, buon lavoro”.
Quando potevo, sfruttavo a mio vantaggio quelle situazioni. Era già frustrante dover vivere chiusa in casa a stretto contatto con le emozioni degli altri. Talvolta, sceglievo di nutrirmi di quelle belle, di quelle che mi facevano ritrovare un motivo per continuare a vivere. Nessuno sapeva di questa mia capacità, tranne una persona. Mio padre. Il dono si era manifestato in me, quando fece il suo ultimo respiro, in quella stanza di ospedale. Durante i suoi ultimi anni di vita, lo assillavo perché non riuscivo a trovare uno scopo, non sapevo neppure perché avessi scelto di lavorare nei servizi sociali. Non avevo chiaro cosa volessi fare, sapevo solo che volevo dare una mano agli altri. Prima di morire, mio padre mi aveva fatto capire che lui sapeva, perché anche lui aveva sentito per quasi una vita intera le emozioni degli altri.
“Usa il tuo talento Maya, non farti mai usare da lui. Se lo accoglierai dentro di te, scoprirai un mondo magnifico, comprenderai che quella è la tua vera missione. Aiutare gli altri a sentire”.
Compresi molto dopo quello che intendeva e capii con il passare dell’empatia che quel talento, come lo chiamava lui, era parte del nostro retaggio.
Quando il medico aveva stabilito il decesso di mio padre, avevo percepito un profondo senso di colpa. Credevo fosse il mio, derivato dal non essere stata abbastanza vicina a mio padre, ma invece alcune settimane dopo, avevo scoperto che quel senso di colpa era quello del medico, per non aver dato la priorità a mio padre come paziente e averla data ad altri che gli stavano più a cuore. Avevo ereditato una piccola fortuna dalla morte di mio padre e avevo deciso di vivere, anzi sopravvivere di rendita nel mio piccolo bilocale. Paura, vergogna, senso di inadeguatezza, depressione, rabbia. Ma perché sentivo solo quelle emozioni? Perché non potevo sentire emozioni di gioia e felicità? Credevo che il mondo vivesse solo di quella negatività. Mi ero spostata nella casa di mio padre, circondata da più palazzi, abitati da persone che stavano economicamente bene. Credevo che la ricchezza portasse felicità e invece, dopo tre ore chiusa in quell’immenso appartamento, mi ero accorta che quella zona era un covo di pessimisti e depressi. Tornai a casa mia.
La mia esistenza cambiò, quando qualcuno bussò alla mia porta.
È sempre così. C’è sempre un messaggero che ti aiuta a riconoscere la Bellezza che ti circonda.
Avevo spostato lo spioncino per vedere chi fosse. Era un bambino, dieci anni circa. Non mi relazionavo quasi mai con le persone, tranne quando raramente sceglievo di farmi del male, scendendo al supermercato sotto casa. Avevo aperto la porta con mille dubbi. Chi era, cosa voleva, perché aveva bussato proprio alla mia porta.
“Ciao”, aveva detto.
“Chi sei?” avevo chiesto diffidente.
“Mi chiamo Marco, abito sopra di te”
“Ti serve qualcosa?”
“Stavo per chiederti la stessa cosa”
Avevo aggrottato la fronte.
“Perché scusa?”
Marco si era introdotto nel mio appartamento, si era guardato un po’ attorno, poi si era tolto lo zainetto e si era seduto sul divano in salotto.
“Ma che fai? I tuoi non ti hanno insegnato che non si entra a casa degli sconosciuti?”
Marco aveva sorriso. “I miei mi hanno insegnato ad aiutare le persone che piangono. E tu piangi e urli spesso. La tua stanza è proprio sotto la mia cameretta e ti sento sempre. Vai letto piangendo e mi svegli la mattina urlando”.
Ero rimasta imbalsamata sul ciglio dell’arco che separava il salotto dall’ingresso. Avevo fissato quel bambino per un tempo sufficiente a sembrare una sociopatica.
“Bé, sai, anche a me svegliano urlando e piangendo le persone, ma non mi introduco nelle loro case a fargli la ramanzina”.
Marco si era alzato di scatto e si era messo sull’attenti.
“Ma io sono qui per aiutarti, non per farti la ramanzina”.
“Senti bambino…”
“Marco”
“…senti Marco, ora ho parecchie cose da fare, ti dispiace andare a scuola o tornare su?”.
“Oggi è domenica, e mia mamma sa che sono qui” aveva tirato fuori dallo zaino un foglio e una matita. Aveva piegato il foglio in due parti, in una colonna aveva scritto Maya, nell’altra Marco.
“Dai siediti”
Mi ero portata la mano alla testa, che nel frattempo stava esplodendo. Una donna stava piangendo, era disperata, sentivo le sue grida nella mia testa ogni giorno. Soffriva per qualcosa. Marco si era accorto che non ero concentrata su di lui.
“Allora, chi stai sentendo? Aspetta, forse lo so. Samanta D’Aleo, terzo piano di Via Monfalcone, la comunità psichiatrica. Direi che quella è già bella che sistemata. C’è già qualcuno che si occupa di lei”.
Ero sbalordita. Ma chi era quel bambino?
“Dai concentrati, chi senti adesso?” mi aveva domandato con la sua vocina dolce, inconsapevole di avermi appena sconvolto la giornata.
“Ma chi sei tu? Come sai che sento certe cose?”
“Te l’ho detto, tu mi svegli con il tuo dolore. Non posso mica tapparmi le orecchie, giusto? Quando te le tappi senti un rimbombo, a un volume più basso certo, ma senti comunque”.
Una parte di me aveva pensato che stessi avendo una visione. Marco si era seduto al tavolo e aveva iniziato a scrivere sotto la sua colonna. Aveva scritto il mio nome.
“Dai, dimmi cosa senti?”
Avevo accettato di reagire a quello stravolgimento esistenziale.
“Ecco, sento la rabbia di un uomo sotto per strada. Credo che sia incazz…arrabbiato con l’auto davanti a lui che ha appena tamponato”.
“Okay Maya, devi discernere coloro che hanno realmente bisogno di te da quelli che semplicemente hanno la luna storta. A me quelli fanno ridere. Mi rallegrano la giornata. Non devi farti assorbire dalla rabbia degli altri, bisogna sorridere della rabbia degli altri” aveva detto.
“Sì, come quando vedi un bambino sbattere i piedi per terra perché non riesce ad afferrare un gioco che sta in alto. Tu cosa fai? Ridi perché ti fa tenerezza. Certi adulti sono uguali.”
Ma come cavolo parlava quel bambino? Discernere, assorbire la rabbia? Ma che gli davano i genitori?
“C’è una bambina spaventata, ha tanta paura. È lei che la mattina mi sveglia” avevo detto timorosa.Marco aveva abbassato la testa e aveva chiuso gli occhi.
“Sì, la sento spesso anche io. Da dove viene, lo sai?”No.
“Devi concentrarti Maya. Guarda all’interno della scatola”.
“La scatola? Quale scatola?”
“La tua mente Maya”
“Credo che abiti nel palazzo di fronte, al terzo o quarto piano. Ha paura, sempre di più al mattino” avevo detto.
“Non è paura. È terrore. Quando la mamma esce per andare al lavoro, il patrigno entra in camera sua”.
Avevo sbarrato gli occhi.“COSA? Dobbiamo fare qualcosa, anzi, tu sei piccolo. Io posso fare qualcosa” avevo detto all’improvviso, accendendomi. Marco aveva scritto il nome della bambina sotto la mia colonna. Viola.
“Sai cosa fare Maya, io resterò qui”.Mi ero preparata di corsa ed ero scesa sotto. Avevo attraversato la strada sentendo i pianti di Viola. Per la prima volta da quando avevo acquisito l’empatia, sentivo di volerla, per la prima volta avevo compreso cosa intendesse mio padre con la parola Accogliere. Non avevo riflettuto su come comportarmi esattamente dopo aver bussato alla porta della bambina. Ero stata spinta da una carica irrazionale che non mi aveva minimamente preparato al come aiutare Viola. Avevo bussato.Un uomo sulla cinquantina, con indosso una canotta sgualcita, un paio di boxer e una sigaretta appoggiata sull’orecchio, mi aveva sorriso.
“Ciao bellezza, hai bisogno?”.
Ero rimasta paralizzata, senza sapere cosa dire. Realizzai nei minuti successivi che non avrei potuto prendere Viola e portarla via, senza uno straccio di prova.“Credo di aver sbagliato porta, mi scusi”.
Ero scesa nell’androne, colpevolizzandomi per il mio essere sprovvista e avventata. Ero un’assistente sociale. Sapevo come avrei dovuto reagire. Avevo chiamato la polizia, spiegando che mi erano giunte voci sul pessimo comportamento dell’uomo. Avevo insistito che mi facessero entrare nell’appartamento per mettere una telecamera. Non so dirvi come mi sono sentita quando quel verme è uscito in manette dall’appartamento. So solo dirvi come ho reagito quando Viola mi ha abbracciato. Ho SENTITO il suo sollievo, la sua paura calare piano piano e il suo rendersi conto che quell’uomo non l’avrebbe più tormentata, forse nei suoi incubi, ma mai più nella realtà. Ho SENTITO la gioia crescere dentro di me, la gioia per aver aiutato un essere piccolo e indifeso. Ho ACCETTATO la mia empatia, tutto quel dolore, quell’odio, quella rabbia si erano improvvisamente trasformati in energia. Quelle emozioni che fino a poco prima avevo respinto, in quel momento mi avevano dato la carica per agire, per compiere la mia missione.Ero corsa nel mio appartamento. Non vedevo l’ora di abbracciare Marco e ringraziarlo per quel primo passo.
“Marco” avevo gridato entusiasta. Marco non c’era, probabilmente era salito a cenare. Non volevo disturbarlo subito. Quella sera avevo mangiato con gusto. Mi ero fatta una doccia e mi ero vestita bene. Ero salita poi al piano di sopra per vedere Marco. Una signora mi aveva aperto e mi aveva guardato stizzita. Stava pensando Ecco la pazza del quarto piano. Ma a me non importava. Ero felice e mi veniva da ridere per la sua reazione.
“Cerco suo figlio Marco, volevo ringraziarlo” avevo detto.
L’espressione della donna era passata da disgustata a perplessa.
“Io non ho figli, vivo da sola”.Dopo avermi sbattuto la porta in faccia, ero rimasta sul pianerottolo confusa e piena di domande. Ero salita di un altro piano, poi avevo bussato a tutte le porte del palazzo, ma senza trovare Marco.
Chi era quel bambino tanto coraggioso che mi aveva aiutato ad accettare il mio talento?
Chi era quel bambino che portava il nome di mio padre?
La risposta era dentro di me.
Era sempre stata dentro di me.
È stato più difficile attribuire un titolo a questo racconto. Ad un certo punto ho anche pensato di non darglielo, ma ogni storia ha bisogno di un titolo. Per aiutarmi ho fatto un esercizio, mi sono chiesta Miriam che cosa vuoi trasmettere attraverso questo racconto? Non ho sempre la risposta pronta a questa domanda, perché le storie che scrivo mi attraversano come un flusso di coscienza di cui non sempre sono consapevole. Dopo averci riflettuto un po’, mi sono detta che questa storia è la rappresentazione di ciò che abbiamo tutti, chi più chi meno. Tutti noi riusciamo a riconoscere le emozioni degli altri, ma quello che non tutti sanno è che queste emozioni rispecchiano esattamente ciò che abbiamo dentro. Inizialmente, Maya può sentire solo la sofferenza perché il suo cuore è il primo ad essere sofferto, non riesce a vedere la bellezza perché è la prima a non vederla dentro di lei. Marco, un angelo che rappresenta lo spirito di suo padre, la aiuta a comprendere che una volta che riconosci e accogli dentro di te la sofferenza, è lì che riesci a vedere la bellezza. Dopo aver realizzato questo significato, celato all’interno della storia, sono andata a cercare l’etimologia della parola empatia. Questa parola, derivante dal greco antico, contiene al suo interno EN, “dentro” e PATHOS “Sofferenza o sentimento”. Da qui parte del titolo.



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