IL DIVORATORE DI GELATI
Un mio audioracconto, con la voce narrante di Ana Maria Manea
Ho conosciuto Ana al liceo, i primi due anni eravamo inseparabili, amiche del cuore, come si diceva una volta; poi lei ha cambiato scuola, ci siamo allontanate, ritrovate, perse e ancora ritrovate. Qualche settimana fa le ho chiesto “Ti va di leggere il racconto de Il divoratore di gelati”? Era molto contenta di aiutarmi e dopo aver letto la storia di Ernesto si è subito immedesimata in lui e questo lo ha mostrato nella lettura di questo racconto breve, ma significativo.
Come Ernesto, anche io, quando ero piccola ero assalita dalla sensazione di essere costantemente osservata dagli altri. Osservata e giudicata. Dopo anni, ho compreso da dove aveva origine quel giudizio. Il Salvatore di Ernesto lo dice chiaramente, come qualcuno lo ha detto a me. Conoscete quello che si prova quando qualcuno dice qualcosa e immediatamente quel qualcosa risuona con voi? Per me è stato esattamente così.
Grazie Ana, per aver dato una voce a Ernesto!
Miriam
Buon ascolto.
Oppure, prosegui nella lettura!
Ho incontrato Salvatore nel momento in cui avevo deciso di farla finita.
È un caso che si chiami Salvatore? No, dai. Come quando pensi ad una persona che non vedi da tanto tempo e il giorno dopo la incontri. Non è un caso. Mio nonno diceva, chi crede nel caso è semplicemente uno stupido. Non l’ho detto io, sappiatelo. Eppure, in questa frase c’è del senso. In tutto, c’è un senso, ma non voglio scivolare in frasi banali. Voglio raccontarvi l’incontro con il mio Salvatore, ma per farlo dovrò fare un passo indietro.
Mi chiamo Ernesto, sono un pizzaiolo e un ex credente nel caso. Sono sempre stato un uomo pauroso. La mia più grande paura è sempre stata la relazione con le persone. Il mio psicoterapeuta la chiamava paura irrazionale, ma quello era uno stupido, credeva anche lui nel caso, e dopo aver concluso la terapia, mi ha confessato di essere diventato terapeuta per risolvere il conflitto con sua madre, una donna alcolizzata e violenta. Chiudo questa parentesi. Salvatore mi ha spiegato che la mia paura riguarda non tanto le persone, ma il loro giudizio. Avete presente The Truman show? Ecco, io da tutta la vita, mi sento costantemente osservato dagli altri e percepisco il loro giudizio nei miei confronti, che poi il giudizio è il mio, mi ha detto Salvatore.
Da piccolo, questa paura del giudizio era ingestibile. Non potevo fare niente. Ricordo un giorno in cui ero andato dal gelataio sotto casa. Mi ero preso una coppetta. Ero salito a casa, tutto contento, per essere stato in grado di formulare la frase “Vorrei una coppetta piccola da due gusti, nocciola e pistacchio”. Rientrato in casa, mia madre mi aveva visto con questo gelato e le era venuta voglia anche a lei. Non è che scenderesti di nuovo a prendermi una coppetta anche a me, anzi un cono medio, mi aveva domandato. Ecco la paura. Mentre ero in ascensore, la mia mente aveva formulato pensieri deleteri sul gelataio che mi rimproverava per essere un ingordo. Un altro gelato, pure un cono medio, mi avrebbe detto. Sei proprio un cicciobomba bambinetto. Allora io pensavo ad una controrisposta. Forse era meglio anticiparlo, prima che potesse darmi del mangione. Avrei potuto dirgli la verità. Così mi ero preparato un discorso che naturalmente non avrei mai espresso con la chiarezza con cui l’avevo pensato. Mia madre mi ha visto con la coppetta in mano e l’è venuta voglia di un cono medio, ma non è per me signor gelataio, io non mangio due gelati di fila. Sì, gli avrei detto quello. Poi, una volta dentro la gelateria, le parole mi si erano bloccate in gola, gli occhi avevano puntato solo le vaschette dei gusti, la mano con le monetine aveva tremato, le guance si erano infuocate e la mente aveva anticipato il giudizio negativo del gelataio nei miei confronti. E a differenza di come mi sarei aspettato, il gelataio mi aveva composto il cono senza dire una parola e tra uno sbadiglio e un altro, aveva preso le monete dalla mia manina sudata di vergogna. Ero uscito dalla gelateria e avevo pensato, Ha preferito non dirmi nulla, gli avrò fatto pena, ma sicuramente ha pensato che fossi un ingordo ciccione.
La mia vita è fatta di questi episodi di vergogna e senso di inadeguatezza. Mi sono sempre sentito sbagliato, ma a parte questo, c’era una cosa che sapevo fare veramente bene: la pizza. Naturalmente, non mi sono reso subito conto di questa mia dote. Per vent’anni ho fatto pizze, senza sapere cosa pensassero le persone che le mangiavano. Ho scelto volutamente di chiudermi in cucina la notte a fare impasti su impasti, pizze su pizze, ma avevo chiesto al titolare del forno, di non rivelarmi recensioni sul mio operato. Non saranno male, dicevo, altrimenti Piero mi avrebbe licenziato.
Quando assistetti alla prima lezione del corso di Salvatore, la domanda che pose al pubblico era stata: “Qual è la vostra missione?”. Una domanda apparentemente banale, riconducibile per i più al mestiere svolto. Per me, invece, quella domanda aveva scatenato l’inizio della mia crisi esistenziale, quella vera, quella che mi aveva portato quasi al…a farla finita. La notte, quella domanda mi assaliva e mi martellava le meningi fino a farmi venire un mal di testa atroce. Iniziai a torturare quei poveri impasti per pizza. Non credevo possibile che la mia missione fosse fare pizze. A chi servono le mie pizze? Quando nel corso della seconda lezione, Salvatore ci aveva detto che la missione è relativa al Servizio, cioè servire in qualche modo l’umanità, avevo avuto un crollo ancora più distruttivo. Come potevo servire l’umanità? Attraverso le pizze? No, non poteva essere.
Avevo così iniziato a buttare i miei meravigliosi impasti. Li facevo, li buttavo e li rifacevo. Mi dicevo che se realmente fosse stata quella la mia missione, avrei dovuto fare le pizze più buone del mondo. Decisi di punirmi, chiedendo a Piero di rivelarmi l’opinione sulle mie pizze. Un mattino, a fine turno, gli chiesi di scrivere ogni singola recensione, con annessi i consigli su come migliorarmi. Quella notte, iniziai a leggere alcuni commenti scritti. Mi aveva colpito che nessun commento era uguale a un altro. Ovviamente, avevo preso per veritieri solo i giudizi negativi. Troppo salata, quando torno a casa devo bere due bottiglie di acqua, diceva un commento su Instagram. E sì, per punirmi ancora di più, avevo visualizzato tutti i commenti sotto le foto delle mie pizze. Piero aveva aperto un profilo per attirare giovani. Quello mi aveva portato nella disperazione più totale. Mi ero incaponito. Dovevo fare la pizza più buona in assoluto. Avevo messo meno sale nell’impasto, ma i commenti futuri erano stati: Insipida, insapore, senza gusto. Dopo aver letto che la mia pizza era troppo alta, avevo deciso di stenderla maggiormente, ma si erano susseguiti commenti relativi ad una pizza troppo piatta. Stavo impazzendo.
Ero un uomo inutile e misero, incapace di fare il suo lavoro e senza una missione nella vita.
Durante il corso, mi sedevo in fondo all’aula. Non facevo mai domande e non guardavo mai negli occhi Salvatore, perché il suo giudizio lo percepivo quadruplicato rispetto a quello delle altre persone. Mi ero reso invisibile agli occhi di tutti.
Non mi ero presentato alle ultime lezioni, non sentivo più la necessità di frequentare un corso di crescita personale, anche se Salvatore non l’aveva mai definito così, preferiva chiamarlo, corso di risveglio alla coscienza, ma a me quelle due paroline, risveglio e coscienza, facevano tremare, come tutto d’altronde.
Una sera, reduce da una giornata trascorsa a leggere commenti sotto le mie pizze, avevo deciso finalmente di farla finita. Avevo scelto un ponte, banale lo so. Ma avevo scelto il ponte del Diavolo sotto il paesino di campagna in cui ero cresciuto, quel paesino in cui quel gelataio sicuramente aveva pensato che io fossi un divoratore di gelati.
Quando la mia mano si era staccata dal parapetto e stavo per gettarmi giù, il mio Salvatore mi aveva afferrato. Non avevo mai preso in considerazione che Salvatore potesse essersi accorto di me. E invece, in quell’aula, più cercavo di nascondermi più saltavo all’occhio, così mi aveva detto lui. Non mi ha mai detto com’era possibile che fosse in quel preciso momento su quel ponte. Mi aveva semplicemente detto che non era un caso. E poi, dopo avermi convinto a non gettarmi, semplicemente attraverso i suoi occhi, mi aveva rivelato qualcosa di assurdo, tanto incomprensibile quanto sensato.
Mi aveva detto: Ernesto, la tua missione è qui e ora.