Sarà l’influenza del Moroz (Gianluca Morozzi), ma questo racconto è nato così, senza alcuno scopo, senza un apparente insegnamento da trasmettere. Trovatelo voi, se vi viene. Per me, scriverlo, immedesimandomi nell’italiano medio è stato divertente.
Buona lettura!
E… al prossimo racconto!
Miriam
P.S. Grazie alla mia amica Rosa per avermi prestato la sua arte…
Tommaso, hai la parola come le scorregge dei muli!
Ecco. Vi presento mio nonno. Il motivo per cui è incazzato dipende dal fatto che non sono andato a trovarlo come gli avevo promesso.
Ti auguro ti cacare a ventaglio per i prossimi cinquant’anni, ha continuato a dirmi al telefono.
Nonno, mi dispiace, ma ho fatto tardi a lavoro, mi sono giustificato, mentendo. Sì, a mio nonno bisogna raccontare le bugie per far vivere serene le persone, anzi no, le palle, dice lui. Bisogna raccontare palle. Ebbene, l’ho ascoltato alla lettera. Racconto palle a chiunque, sin da quando avevo quattordici anni. Tardino, direte voi. Io, purtroppo o per fortuna ho posticipato la fase in cui il bambino smette di essere sé stesso e viene assuefatto dal sistema sociale che lo obbliga a reprimere quella pulsione infantile, che gli fa dire la verità in ogni situazione. Sì, quell’impulso che di fronte ad un uomo sulla carrozzina, fa dire a un bambino Non sei un po’ cresciuto per stare sul passeggino? Sì, ho detto pure quello. Avevo sette anni quando per la prima volta ho conosciuto la disabilità. Quell’uomo, con tutta la gentilezza di cui ero sprovvisto, mi ha risposto Non ho molta voglia di camminare oggi.
La prima volta che ho detto una palla è stato al campo estivo. La palla si è resa necessaria per proteggermi da una colossale figura di merda. Il mio compagno Andrea mi aveva raccontato di essersi fatto fare un lavoretto di mano da una delle animatrici, di tre anni più grande. Io, generalmente poco integrato col gruppo dei pari, avevo fatto la spia, raccontando e se posso vantarmi, estremizzando l’accaduto. Avevo costruito ad hoc una scena molto simpatica. Il mio compagno, dopo che aveva sentito girare voci sul suo conto, era venuto da me e mi aveva domandato se avessi spifferato io quella storia. No, ti pare, gli avevo detto. In realtà, quando me l’hai raccontata, c’era Gabriele dietro la porta che ha sentito tutto. Mi sa che è stato proprio lui il bastardo delatore. Posso solo dirvi che Gabriele, il bullo a cui piaceva tanto farmi lo sparticulo, dopo quella volta aveva smesso di importunarmi. È così che ho realizzato che l’insegnamento di mio nonno era un ottimo modo per vivere in pace.
“Sei stato incredibile stanotte” mi dice la donna sdraiata accanto a me sul letto. Non chiedetemelo. Non ho idea di come si chiami.
“Te la sei cavata anche tu, piccola” le dico allungandomi verso il suo comodino per prendere l’orologio.
Lei si incupisce. “Mica te ne vai, voglio il secondo round”.
Risata finta da parte mia. “Devo lavorare, piccola”.
“Non ti ricordi come mi chiamo?” chiede sul punto di apparire leggermente incazzata.
“No, ti pare” le dico infilandomi i jeans. “La cucina?” chiedo.
Lei mi indica in fondo al corridoio a sinistra. Corro, cerco la sua borsa, sperando sia in cucina. Non c’è. Merda. Pregando che non mi veda attraversare il corridoio, mi fiondo in salotto. Eccola. Apro la sua borsa e recupero il portafoglio. Cerco la carta d’identità. Amaranta Crescentini.
Ora, spiegatemi come cazzo avrei fatto a ricordarmi il suo nome. Con tutta la buona volontà di questo mondo e considerando la pessima qualità della memoria a breve termine di noi uomini, potevo mai ricordarmi che questa si chiama Amaranta?
Torno in camera, rubando un cioccolatino dal recipiente di cristallo posto al centro del tavolo di cristallo, adiacente alla credenza di cristallo. Non commenterò tutto questo cristallo.
Con fare disinvolto raccolgo la cintura ai piedi del letto.
“Che hai fatto?” chiede lei confusa.
“Ho bevuto un bicchiere d’acqua. Apri la bocca”.
Lei apre la bocca, un enorme bocca con due carnose labbra rosa. Ho un flashback. Arrivateci da soli.
Le appoggio il cioccolatino sulla lingua.
“Ti piace Amaranta?” le dico, considerando che la messinscena sia riuscita piuttosto bene.
Gli occhi di Amaranta si illuminano.
“No vabbè, ma ti sei ricordato?”
Il mio ego sussulta. Sono un genio, penso tra me e me.
“Potevo dimenticarmi il tuo bellissimo nome? Dai, il fatto che sia così particolare, in realtà, rende la cosa più facile, non trovi?”
Lei annuisce, arrossita.
Esco di casa tronfio di sicurezza, entro in ascensore e mi guardo allo specchio.
“Cazzo, se sei bravo”.
Lavoro in una clinica privata. Sono un chirurgo estetico. Vi sorprendete? No, lo immaginavo. D’altronde la chirurgia estetica è un altro tipo di palla. Una donna – a cui la natura leopardiana ha meschinamente offerto una prima di seno – che chiede una mastoplastica additiva è una pallista. Non fraintendetemi, amo il mio lavoro e tutte le parti del corpo delle mie clienti, prima e dopo il mio intervento. Ma la verità è che un seno di silicone è una palla, una meravigliosa palla, e per me che odio la verità è bellissimo così.
Una cliente si presenta nel mio studio. Una donna alta e molto attraente, poco più giovane di me.
“Dottore, voglio aumentare il volume del mio seno” mi dice iniziandosi a spogliare, senza che io abbia ancora aperto bocca.
Quando la donna è seminuda di fronte a me, non ho parole. Non ho davvero parole. Ho davanti il seno naturale più bello che io abbia mai visto. Due tette sode, perfettamente bilanciate.
Le guardo, cercando per la prima volta di essere sincero. È pazzesco come l’abitudine di raccontare palle, ti renda difficile dire la verità, che dopotutto rappresenta un complimento che farebbe risparmiare alla mia cliente seimila euro. Seimila euro che poi andrebbero a me. No, non posso privare questa donna di un dono così bello. A costo di perdere i soldi. Penso, mentre quella donna attende il mio responso col suo seno a un palmo dal mio naso. Poi, arriva un’intuizione. Voglio questa donna, anche solo per una notte. Anzi no, più di una notte. Mentre ascolto i pensieri che mi offuscano la mente, realizzo che io questa donna la amo. Lo giuro, non amo solo le sue tette. Il modo in cui parla, il modo in cui si è levata la camicia, il modo in cui mi sta davanti a testa alta con questo seno in vista, mi spiazza. Ho deciso che deve essere mia. Valuto brevemente la situazione. Io ho quasi quarant’anni. Non sono male, sono un incrocio tra Ryan Gosling e Tom Cruise. Tom per l’altezza, Ryan per il fascino. Lo so, la coppia in cui lui è più basso di lei è sempre stata un po’ controversa, ma a me che me ne frega. Un pallista basso con una figa da paura batte uno spilungone sincero con una cessa a pedali. E non dite palle, vi vedo che annuite imbarazzati.
“Signora…?” In effetti, le sue tette si sono presentate prima di lei.
“Signorina, a dire il vero, signorina Amaranta Rossini”
Okay. Inizio a spaventarmi per le assurdità di questa strana mattinata. Quante probabilità c’erano di incontrare a distanza di quindici ore due Amaranta? Questo è un segno, un segno sì. E se è vero che Amaranta significa immortale, il nostro amore sarà come l’amaranto, non appassirà mai.
“Signorina Rossini, devo essere sincero con lei” azzardo. Devo farlo, devo dire la verità.
“Un intervento di questo tipo è sconsigliato nella sua posizione.”
“Quale posizione, mi scusi?”
Ecco. Il pallista che è in me è in serie difficoltà. Questo non è normale. Sono riuscito a inventarmi una palla per evitare di farmi ritirare la patente quando ero ubriaco marcio, sono riuscito a farmi assumere dichiarando esperienze fasulle in studi rinomati, sono riuscito ad ottenere il pass per entrare allo stadio gratis, spacciandomi per un depresso psichiatrico con la 104. E ora non riesco a mentire di fronte a questo paio di tette. Dai pantaloni viola della signorina Amaranta Rossini, spicca la cucitura delle sue mutandine arancioni con cuciti dei cuoricini fucsia. Mi impongo di guardarla negli occhi, accorgendomi di piegare leggermente la testa all’indietro.
“Ebbene, signorina Rossini, io non posso operarla. In questi cinque minuti la mia testa ha formulato pensieri d’amore verso le sue te…verso le sue te…”. Inizio a sentirmi come Jim Carrey in Bugiardo Bugiardo, quando non riesce a non dire che la penna è blu. “Verso le sue tenere speranze di aumentare il suo seno. Un seno perfetto, signorina Rossini. Ecco. Lei ha un seno perfetto e io non posso che ammirarlo”.
E fu così che il pallista, l’indiscusso Pinocchio della Clinica Ippocrate, disse per la prima volta dopo tantissimo tempo la verità. Una verità che mi fece provare quel sincero sentimento di vero amore per qualcuno. Per qualcuno con due tette tali da ridimensionarmi.