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Ispirato da una recente esperienza in ospedale, 11, 12 e 13 è sfrontato, ironico e politicamente scorretto, come piace a me.

Miriam

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🔊 Clicca per avviare l’audioracconto – con la voce di Francesco Trio di Alchemic Fiction

RACCONTO: 11, 12 e 13

Ero nella stanza del reparto di Medicina generale dell’ospedale di Genova. Mi avevano chiesto di badare ad una paziente per qualche ora. Letto dodici.  La signora che dovevo assistere dormiva. Le sue vicine di letto, no. Si muovevano entrambe nei loro letti sfatti e puzzolenti. Quella accanto alla finestra borbottava frasi senza senso. Mi sembrava di essere nell’ospedale psichiatrico di Shutter Island, e invece, era tutto vero. Osservavo le tre donne di quella stanza: ero profondamente sorpresa dalla varietà di coscienze che popolavano il mondo. Un’infinità di terricoli venuti sul pianeta per scontare una pena. E dico pena non a caso. La signora al mio fianco non solo era intontita da psicofarmaci, non solo era sdraiata su un letto lurido e pisciato con addosso solo un pannolone e un paio di piedi obbrobriosi, ma era completamente fuori come un balcone. Le urla della signora, che riecheggiavano in tutto il reparto, chiamavano insistentemente una certa Giovanna. Se da una parte, questo suo supplicare l’aiuto di questa Giovanna, evidentemente presente nel suo immaginario, mi faceva sorridere, dall’altra parte mi inquietava. La follia di questa donna la portava ad alzarsi dal letto ripetutamente contro la volontà del personale medico, e questo mi rendeva ingiustamente allegra la giornata. Al suo ennesimo tentativo di fuga, avevo deciso di accogliere le sue richieste. 
“Signora, ha bisogno che le chiami questa Giovanna?” 
A quella domanda, mi era sembrato che la testa della donna si fosse ruotata di duecentoquaranta gradi, il che mi aveva terrorizzato. Quei suoi occhi blu piccoli e distanti tra loro erano penetrati nei miei. “Aiutami, Giovanna!”. La sua risposta. 
“Signora, ma chi è Giovanna? Sua figlia?” le avevo domandato. 
“Giovanna, cazzo, vieni!”. 
Avevo sgranato gli occhi, spostato lo sguardo sulla porta in cerca di qualcuno che potesse salvarmi da quella matta. 
“Signora, non sono Giovanna, il mio nome è Arianna”. 
La donna si era messa seduta, cercando in tutti i modi di infilarsi le ciabatte.  
Il timore che potesse alzarsi, venire da me e strozzarmi con le sue mani grosse e tozze mi aveva assalito. 
Approfittando del mio vantaggio fisico, mi ero alzata di scatto raggiungendo fulminea il corridoio. Avevo trovato un infermiere partenopeo che alla mia richiesta di aiuto, era entrato nella stanza rimettendo la matta distesa su letto. 
“Giovannina, n’ata vot cà! Rimanit intu liett”. 
Giovanna. Giovanna era lei. La matta. All’università avevo dato un esame di psicologia generale, quindi le mie conoscenze sulla mente umana scarseggiavano. Ma avevo tentato con ogni lume a mia disposizione di comprendere la situazione. 
Probabilmente, la signora Giovanna chiamava la parte più centrata di sé stessa, quella che ormai vagava incontrollata nei meandri della sua coscienza. Forse, supplicava l’aiuto della Giovanna lucida, della Giovanna ancora incontaminata da quel fulmine che l’aveva colpita chissà quando. E fu proprio nel momento in cui cercavo teorie su Giovanna, che la signora del letto tredici aveva sussultato. 
“Fanculo!” aveva bofonchiato. “Fanculo tutti!” 
Immobile sulla sedia, avevo ruotato leggermente gli occhi verso la donna, un’ultraottantenne con i capelli fucsia. 
“Tutto bene signora?” avevo balbettato. 
“Antonio!” aveva gridato all’improvviso. 
“A-Antonio? Signora, mi chiamo Arianna. Ha bisogno di qualcosa?” 
“Devo pisciare Antonio. Il cesso dove sta?”. 
Era chiaro che stavo badando più ai letti undici e tredici piuttosto che al dodici. Mi ero nuovamente fiondata nel corridoio alla ricerca di infermieri o medici, ma quel corridoio era un via vai di pecore in preda a deliri e allucinazioni. Era come se assistere vecchi pazzi potesse contagiare chiunque, rendendolo incapace di intendere e di volere.  
“Scusate, la signora del letto tredici ha bisogno di assistenza” avevo detto con tono deciso. 
Un’oss che passava di lì si era fermata davanti a me. 
“Sono una tirocinante, chi ha bisogno?”. 
Una giovane tirocinante, una salvezza ancora integra e non inquinata da un sistema ospedaliero degradato, mi aveva sorriso. Un sorriso puro e aggraziato che diceva “Sono qui per aiutarti cara Arianna”. 
“Ecco, vede, la signora coi capelli fucsia non sta molto bene, cerca Antonio, dice che deve fare pipì”. 
La ragazza era entrata nella stanza e si era avvicinata al letto tredici. 
“Signora Gabriella so che è difficile restare a letto e non avere vicino suo marito, se vuole possiamo parlare un po’. Mi racconti qualcosa, le va?”. 
La donna, a quel punto, era diventata seria, serissima. Si era girata verso la tirocinante, prendendole le mani. 
“Antonio caro, devo pisciare, se non mi porti al cesso ti piscio qui in mezzo, ti va?”. 
L’oss aveva abbandonato la stanza dicendo alla signora che sarebbe ripassata per cambiarle il pannolone. 
Nel frattempo, la signora Giovanna tentava di tirarsi su, lottando contro la debolezza che la costringeva a letto. L’altra fulminata continuava a mandare a quel paese quel povero Antonio. 
Mi stavo rassegnando alla follia che dominava quella stanza, quando una terza voce era piombata disturbante. 
“Minchia, il treno! Il treno ci sta per investire!”. 

Io, Gabriella e Giovanna avevamo alzato gli occhi alla ricerca di un treno fantasma pronto ad abbatterci. Nessun treno. 

Solo. Il risveglio. Del letto dodici.